La Corte di Cassazione Civile, Sez. I, con la sentenza dell’8 aprile 2015 n. 7003, si è definitivamente pronunciata circa la violazione del diritto di prelazione statutariamente previsto e sulla controversa possibilità per il socio pretermesso di tutelarsi facendo ricorso al riscatto delle azioni ingiustamente alienate.
A differenza del semplice patto parasociale, il patto di prelazione che sia stato recepito nello statuto della società di capitali può essere fatto valere avverso la stessa società , in virtù della considerazione che proprio la presenza della clausola all’ interno dello statuto attestasse la sua funzione sociale, tale da andare al di là dell’interesse del singolo socio. Tale interesse della società, principalmente a garantire stabilità alla compagine sociale, aveva proprio spinto la giurisprudenza di legittimità più risalente a dichiarare l’invalidità del negozio traslativo ed a considerare la clausola di prelazione dotata di efficacia reale: l’interesse del socio a mantenere immutata la propria posizione in seno alla società e l’interesse della società stessa dovevano infatti prevalere su quello terzo cessionario.
Quest’orientamento, già respinto dalla Cassazione più recente, viene del tutto superato dalla sentenza della Cassazione Civile, Sez. I n.7003/2015 la quale ribadisce la natura negoziale e non legale del clausola statutaria.
In considerazione di questo dato deve dunque applicarsi la disciplina generale prevista per l’inadempimento delle obbligazioni, la quale dispone che la violazione sia sanata non già tramite la tutela del riscatto dell’oggetto su cui la prelazione ricade – diritto potestativo dotato di eccezionalità che può essere esercitato esclusivamente nei casi indicati dalla legge – bensì mediante la mera richiesta del risarcimento del danno eventualmente subìto, danno la cui prova ricade sul socio il quale deve dimostrare che dalla violazione è derivata una lesione del suo interesse a rendersi acquirente delle azioni trasferite ai terzi.
Attualmente dunque la Corte sembra rigettare del tutto la possibilità di dichiarare invalida la cessione, muovendosi in una direzione che non soddisfa buona parte dellla dottrina, la quale persegue una soluzione che sia più rispettosa dei diritti del prelazionario pretermesso.
Inoltre questa sentenza non risolve alcuni mistero riguardo alla posizione che l’acquirente delle azioni assumerebbe all’ interno della società, dovrebbe forse ritenersi che la loro posizione sia equiparata a quella dei soci che sono entrati a far parte della compagine societaria nel rispetto delle norme statutarie?